Domenica 27 febbraio  2022, nell’ambito del programma di formazione permanente dell’ICLeS – Istituto per la Clinica dei Legami Sociali di Mestre (VE), sono stata invitata a parlare di una questione centrale nella teoria della tecnica dell’intervento di cura, nonché della pratica istituzionale: il tempo.

Questo il sottotitolo che ho scelto:

Dall’urgenza psichiatrica all’emergenza del soggetto

Il mondo di oggi sembra caratterizzato da una particolare declinazione del tempo, ovvero il tempo che non basta mai, dunque la questione dell’urgenza: l’intera contemporaneità, nella sua accelerazione, sembra sempre più equivalente a una dipendenza tossica, in cui il “fare” velocemente sembra assumere il valore di un cortocircuito, che esclude l’Altro. Siamo dunque immersi in un tempo accelerato, oggettivato, e pensato come standardizzabile. In ogni caso, un tempo lineare, cronologico.

A questa logica non sfuggono le istituzioni per la salute mentale: il tempo  della cura nei Servizi è anch’esso un tempo lineare, misurato e misurabile, quasi sempre  – come dicevo – affannato, che non basta mai, in una logica di urgenza. Tempo che manca, dunque, tempo che si vorrebbe dominare e standardizzare: un numero massimo di incontri per l’assessment diagnostico, un numero massimo di colloqui psicologici, una frequenza prestabilita, una durata delle sedute scandita dall’agenda elettronica dell’istituzione…

Ed ecco allora che circolano frasi e discorsi ormai “tipici”  nella prassi istituzionale psichiatrica, frasi che ruotano attorno al significante tempo.

“La psicoanalisi nei servizi di Salute Mentale “ha fatto il suo tempo”… sono tutti casi urgenti… manca il tempo per seguire i pazienti in una psicoterapia… non possiamo permetterci una frequenza settimanale… in pochi colloqui psicodiagnostici non c’è tempo per fare un lavoro psicologico… alcuni utenti sono in cura da anni e impediscono ad altri di accedere alla psicoterapia… dobbiamo porre un limite massimo di tempo…la psicoterapia breve e focalizzata è la soluzione per la clinica istituzionale…”

Sembrerebbe dunque un tempo andato, quello della psicoanalisi in istituzione… sia che lo si consideri un “buon tempo andato”, mitico, ormai perduto, di cui avere nostalgia, o invece un tempo finalmente superato, con le sue lungaggini e le sue variabilità, sostituito dal tempo rapido e predefinito delle terapie Evidence Based.

Ma è corretto articolare la questione della temporalità in questi termini? Proverò a dimostrare come, oggi più che mai, un orientamento psicoanalitico lacaniano possa produrre una clinica efficace, anche nelle istituzioni ormai accecate da un tempo oggettivato, proprio a partire dalla sua specifica concettualizzazione della questione del tempo soggettivo: non adeguandosi, dunque, alla logica del tempo standard, ma usando il tempo e le sue incidenze all’interno del processo terapeutico di soggettivazione.

Il mio intervento attraverserà il concetto di tempo nei vari saperi, per poi segnalare la concezione del tutto particolare che del tempo ha la psicoanalisi, in particolare con Lacan,  il quale ne sottolineerà  la dimensione logica, piuttosto che cronologica. La psicoanalisi ci insegna infatti che il tempo dell’Io e il tempo dell’inconscio non viaggiano nella stessa direzione, e neppure allo stesso ritmo. Il tempo della cura psicoanalitica è un tempo che non può che essere il tempo del Soggetto, il soggetto dell’inconscio: si tratta quindi di un tempo logico, dalla direzione e dal ritmo variabili, un tempo aperto all’imprevisto, al tyché, … come può armonizzarsi, o per lo meno inserirsi, nel tempo del discorso del Padrone e della Scienza, predominanti nell’Istituzione?

La risposta che cercherò di dare passa anche attraverso la clinica: sappiamo quanto la questione del tempo sia cruciale nella cura e possa divenire il nucleo problematico in certe strutture cliniche – pensiamo all’ossessivo e al suo procrastinare, al tempo del trauma, che talora riemerge a distanza di anni, ma anche a certi soggetti gravi che incontriamo nei servizi psichiatrici, che sembrano non potersi reperire nel tempo, non poter costruire un minimo di storia di sé.

A partire dalla particolare posizione del soggetto sofferente rispetto al tempo, secondo la proposta della clinica Borromea, e del maneggiamento che di tale dimensione si può fare nel transfert, il clinico orientato dalla psicoanalisi, anche all’interno dei servizi pubblici, può contribuire ad un alleggerimento sintomatico significativo; anche la psicoanalisi, lungi dall’essere necessariamente una clinica “interminabile”, enfatizza infatti a suo modo l’importanza dell’urgenza: non si tratta però di un’urgenza dettata dall’altro (sociale, istituzionale, etc), ma di un’urgenza dell’atto, che può dar luogo all’emergere di qualcosa del soggetto, disalienandolo da ciò che lo imprigiona.

(Paola Grifo, 2022)